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L’antropologo, narratore e poeta Giulio Angioni (1939-2017) ha dedicato tutta la sua vita intellettuale a scandagliare e a riflettere sulle forme dell’appartenenza culturale, a partire da quella direttamente vissuta e conosciuta nel mondo contadino del Sud Sardegna nel secondo dopoguerra. Questa strada lo ha portato a interpretare da antropologo la grande, epocale esperienza delle migrazioni e delle trasformazioni culturali della modernità (fra gli altri saggi: Sa laurera, Il sapere della mano, Pane e formaggio, Fare, dire, sentire). Le realtà urbane, quelle della fabbrica e della miniera – altrettante sedi del cosmopolitismo moderno – sono presenti nella narrativa di Angioni (fra gli altri testi: A fogu aintru, Una ignota compagnia, Doppio cielo, Sulla faccia della terra, Assandira, Tempus) come luoghi in cui il confronto fra modi di pensare, fra stili di vita e fra diverse abitudini produce una riflessione più alta su come si impara a essere soggetti culturali, su come si impara a essere uguali e diversi.

“Il punto di partenza di ogni antropologia non pare oggi possa essere altro dal riconoscere che l’umanità si identifica nella sua diversità, che è uguale nel suo essere sempre diversa sia nei singoli individui sia nei vari gruppi di appartenenza: che l’uomo nasce pronto a vivere mille vite diverse, ma diventa uomo quale i tempi e i luoghi comandano, africano di quattro milioni di anni fa, cinese o egizio di cinquemila anni fa, romano di duemila anni fa, romano di oggi; ma sempre anche col rammarico che avrebbe potuto essere altrimenti e quindi con la certezza, il sospetto, la speranza che altri mondi sono sempre possibili.”

Da Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture, Edizioni il Maestrale, Nuoro, 2011, p. 14

“Ed eccoci qua, diversi e tutti uguali. Viviamo in pace insieme. Se uno la fa grossa, lo prendiamo in giro, gliene diciamo quattro e tanto basta. Dopo che sono partiti i nostri tre alemanni, ci sono arrivati, liberi e uguali a noi, tre schiavi musulmani fuggitivi, il nostro sarto, Abdul, il nostro barbiere Hossein, il nostro saliniere Raduan. Tra noi ci rimproveriamo molte cose, ma ci comprendiamo. A parte la pretesa che la bottarga maghrebina sia migliore di quella del nostro Stagno.”

Da Sulla faccia della terra, Feltrinelli/Il Maestrale, Milano, 2015, pp. 123-124

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